Per più di 100 anni si è detto che, una volta raggiunta l’età adulta, la vita del cervello è tutta in caduta. Non si fanno nuovi neuroni dopo la nascita, è stato detto, e li perdiamo soltanto, probabilmente ad una velocità di un milione al giorno.
Così quando nel 1998 Henriette van Praad, al Salk Institute (USA) ha visto i risultati dei suoi esperimenti è corsa fuori dal laboratorio a comprarsi un paio di scarpe da ginnastica sperando che quella vecchia convinzione fosse sbagliata. La ragione del suo ottimismo era l’aver appena scoperto che i ratti adulti che si allenano correndo su un tappeto ruotante producevano nuovi neuroni ad una velocità incredibilmente superiore che nei ratti sedentari. Lavorando nello stesso laboratorio dove appena un anno prima Fred Gage aveva dimostrato per la prima volta che l’uomo adulto può produrre nuovi neuroni, Henriette ha sperato di poter aumentare i propri, magari potenziando anche le proprie capacità intellettive, correndo.
Molti scienziati oggi pensano che potrebbe avere ragione, specialmente alla luce di nuove ricerche che hanno dimostrato che i neuroni appena nati nel cervello dei ratti adulti sono fondamentali per aumentare la memoria. La scoperta fa seguito a quelle succedutesi negli ultimi 15-20 anni che hanno rivelato come il cervello sia, a livello cellulare, molto malleabile e modifichi costantemente le proprie connessioni interne. Si è visto che l’apprendere nuove abilità si associa allo sviluppo di nuovi contatti (sinapsi) fra i neuroni, potenziando così la capacità di comunicazione fra le cellule: il cervello si costruisce sulla base dell’esperienza. Mentre l’abilità di rimodellare le proprie connessioni interne è ormai un principio certo alla base della memoria e dell’apprendimento, le nuove scoperte degli ultimi 3-5 anni indicano che il cervello ha una seconda possibilità per migliorare le proprie prestazioni: formare nuovi neuroni ed aumentare, così, enormemente le propie capacità di elaborazione. Fino ad oggi sono due le zone del cervello dove è stata dimostrata un aumento significativo del numero di neuroni: il bulbo olfattivo e l’ippocampo. Quest’ultimo gioca un ruolo estremamente importante nella regolazione non solo della memoria e dell’apprendimento, ma anche delle emozioni.
La scienza, però, ha il palato difficile e sono ancora necessarie delle prove inequivocabili che l’esercizio fisico o qualsiasi altra cosa, come nuove esperienze, possa effettivamente far moltiplicare i neuroni nel cervello adulto ed aumentarne la memoria. E bisogna ancora dimostrare che anche altre regioni, al di fuori del bulbo olfattivo e dell’ippocampo, abbiano questa capacità. Quest’ultimo punto è, probabilmente solo questione di tempo: la sperimentazione animale e l’adozione di sofisticate tecniche di indagine (grazie alla quantità di denaro che i risvolti economici di queste ricerche riescono a mobilitare) stanno portando a ritenere che si possa avere neurogenesi anche nella corteccia cerebrale e, forse, in altre regioni sottocorticali.
Gli psichiatri sanno da tempo che l’esercizio fisico può aiutare le persone ad uscire da uno stato di depressione ed ora i neuroscienziati stanno scoprendo la base strutturale di tale fenomeno.Ci sono anche prove preliminari che alcuni farmaci antidepressivi, come il Prozac, possano in parte esercitare la loro azione promuovendo la formazione di un maggior numero di neuroni. Queste informazioni propongono un concetto completamente nuovo sulla depressione: che gran parte di essa sia dovuta a processi che deprimono la neurogenesi, mentre la guarigione potrebbe essere dovuta a fattori che la potenziano. Il fatto che l’arricchimento delle esperienze ambientali possa drasticamente modificare l’entità della popolazione neuronale ed il suo modo di funzionare può anche spiegare perché, dopo la menopausa, le donne in terapia con estrogeni sembrano mantenere meglio la loro acutezza mentale e perché le persone che fanno cruciverba, leggono molto o sono coinvolte in altre forme regolari di ginnastica mentale abbiano gli stessi benefici. D’altra parte si potrebbe anche capire perché un ambiente monotono e poco stimolante incupisca e renda meno reattive le persone e perché l’Alzheimer sia più frequente nelle persone col più basso livello di scolarizzazione. Queste nuove ricerche potrebbero anche spiegare perché una buona notte di sonno sia così importante per l’apprendimento: si dà più tempo ai nuovi neuroni di stabilire nuove connessioni nelle regioni del cervello dove la memoria viene depositata.
Queste sono solo alcune delle fantastiche possibilità che derivano dalla recente scoperta che le persone producono nuovi neuroni per tutta la vita, forse migliaia al giorno, e che ciò dipende dalla loro attività fisica e mentale. I ricercatori stanno lavorando affinché queste scoperte portino a metodi semplici per potenziare la capacità del cervello a produrre nuovi neuroni per migliorare l’apprendimento e la memoria, riparare i danni dovuti a infarti o traumi, prevenire o curare la malattia di Alzheimer e il morbo di Parkinson ed altre patologie neurodegenerative.
Nel laboratorio delle mosche che vivono il doppio
In un laboratorio della Università della California, ad Irvine, ci sono migliaia di mosche che normalmente vivono da 70 a 80 giorni: quasi il doppio della loro normale vita media. Le mosche appartengono ad un biologo dell’evoluzione, Michael Rose, che le ha selezionate opportunamente.
All’inizio del processo di selezione, Rose ha raccolto le uova deposte da mosche anziane e le ha fatte schiudere in isolamento. Le nuove mosche sono state quindi trasferite in una scatola di plexiglass, alimentate e trattate in modo da favorire gli accoppiamenti. Una volta diventate anziane, le uova deposte dalle femmine vecchie, e fecondate dai maschi vecchi, sono state nuovamente raccolte e fatte schiudere individualmente. Il ciclo è stato ripetuto molte volte, ma ogni volta si posponeva la data in cui le uova venivano prelevate. Dopo 2 anni e 15 generazioni, il laboratorio aveva raccolto popolazioni di mosche più longeve delle altre.
A questo punto la domanda è: cosa è successo? Quali geni e quali prodotti genici sono stati coinvolti nel processo che ha portato ad una maggiore longevità? Rose ha ottenuto lo stesso risultato anche selezionando mosche sulla base della loro capacità a resistere in condizioni sfavorevoli, cosicché il risultato non è imputabile ad una maggiore fertilità nell’età avanzata. Una possibilità è che sia in qualche modo coinvolto l’enzima superossido-dismutasi (SOD). In un altro laboratorio ad Irvine, infatti, lo scienziato Robert Tyler ha scoperto che le mosche più longeve hanno un gene per la SOD in qualche modo diverso da quello delle mosche di controllo: nelle mosche più longeve il gene è più attivo. La scoperta ha, ovviamente, dato una forte spinta all’ipotesi secondo la quale gli enzimi anti-ossidanti (come la SOD) siano collegabili all’invecchiamento o alla longevità.
Alcuni geni delle mosche, ma anche del lievito, sembrano quindi promuovere la longevità. Ma altri possono ridurla. Uno di questi “geni della morte” è stato isolato nei nematodi da ricercatori che hanno scoperto che la sua mutazione riesce a più che raddoppiare la vita media di questi vermi. È stato trovato che la mutazione porta ad una super-produzione di SOD e catalasi: enzimi collegati alla longevità in ancora altri studi. Questi ed altri enzimi sono in grado di prevenire i danni cellulari, mentre altri, di natura simile, possono riparare i danni che si verificano a livello del DNA od ancora aiutare le cellule a superare gli stress.
Anche lo stile di vita può essere importante per vivere meglio e più a lungo: l’interazione fra cervello e corpo può non solo influire positivamente sulla vita di tutti i giorni, ma anche svolgere un ruolo protettivo in condizioni come l’Alzheimer, le malattie cardiache, il cancro.
Sono in particolare importanti:
• L’educazione continua e la stimolazione intellettuale. È il concetto di “Usalo o perdilo”: anche l’esercizio mentale può aiutare a proteggere le cellule cerebrali.
• L’ esercizio fisico. Alcuni studi hanno dimostrato che l’esercizio fisico aiuta a migliorare la memoria e accrescere la longevità; però, il sogno di prolungare l’età massima è passato dalla leggenda ai laboratori. Man mano che gli scienziati esplorano sempre più i geni, le cellule e gli organi mentre invecchiano, scoprono sempre più segreti della longevità. Di conseguenza, l’allungamento della vita diventa sempre più una possibilità invece di una favola, e la speranza di ritardare l’insorgenza di malattie e processi degenerativi diventa sempre più un obiettivo raggiungibile, anziché un sogno.
• Il controllo dello stress. Diverse ricerche hanno indicato che le condizioni di stress possono danneggiare l’ippocampo, una zona cerebrale essenziale per la memoria e l’acutezza mentale.
• La depressione. Questa condizione è legata a riduzione del volume dell’ippocampo e può influenzare la memoria ed i processi cognitivi. La depressione non trattata è un problema particolarmente importante negli anziani, fra i quali vi è il più alto tasso di suicidi. Alcuni studi hanno dimostrato che anche gli stati depressivi che si verificano in seguito a malattie molto gravi, quali l’infarto e l’ictus, riducono fortemente le possibilità di guarigione.
• Il mantenimento delle relazioni sociali. Sembra che le persone con un forte coinvolgimento sociale siano meno soggette all’influenza. In uno studio, donne con tumore al seno che frequentavano un gruppo di supporto hanno avuto un tempo di sopravvivenza maggiore rispetto a quelle che non lo facevano.
• La dieta. Una dieta ipocalorica (dal 30 al 60 percento di calorie in meno), ma bilanciata, promuove un vistoso prolungamento della vita media nei topi, probabilmente innescando meccanismi che ritardano l’insorgenza di danni al DNA, il livello di radicali liberi, il bilancio ormonale o l’invecchiamento cellulare.
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